Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

venerdì 24 settembre 2010

La berakah ebraica al posto dell'Offertorio

Un lettore, che si è dato il nick "Christe eleison", con i suoi input mi induce ad una ulteriore riflessione, che vorrei condividere estraendo l'osservazione sulla berakah ebraica al posto dell'Offertorio nella Messa riformata.

Basta un solo 'iota' espunto, per deteriorare la bellezza la perfezione la sacralità di quello che Benedetto XVI, quando era ancora cardinale, ha definito "Edificio antico"(1) mirabile e intangibile. « ... A nessuno è concesso di sottovalutare il Mistero affidato alle nostre mani: esso è troppo grande perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale.» [Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 52]

Questo il messaggio integrale del lettore:
"Oltrepassamenti franchi sono pure quelli in cui, tenendo in non cale la lettera del Concilio, si sviluppano le riforme in senso opposto alla volontà legislativa del Concilio. L'esempio più cospicuo rimane quello della universale eliminazione della lingua latina dai riti latini, la quale secondo l'articolo 36 della Costituzione sulla liturgia si doveva conservare nel rito romano e che viceversa fu di fatto proscritta, celebrandosi dappertutto la Messa nelle lingue volgari, sia nella parte didattica sia nella parte sacrificale." (citazione da "Iota unum" di Romano Amerio)
. l'abolizione del Latino
. lo scempio degli altari
. l'emarginazione del Tabernacolo
. l'accantonamento del gregoriano e della musica liturgica
. la berakà ebraica al posto dell'Offertorio
. il Sacrificio di Cristo sempre più dimenticato e sostituito dalla protestante Cena
è forse un punto di non ritorno?
Dio non voglia!

La berakàh ebraica al posto dell'Offertorio

Colpisce che quanto segue sia detto esplicitamente in un documento come una Esortazione Apostolica Post-Sinodale:
[...] È in questo contesto che Gesù introduce la novità del suo dono. Nella preghiera di lode, la Berakah, Egli ringrazia il Padre non solo per i grandi eventi della storia passata, ma anche per la propria «esaltazione». Istituendo il sacramento dell’Eucaristia, Gesù anticipa ed implica il Sacrificio della croce e la vittoria della risurrezione. (Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007, n.10)
È molto bello e vero, anche nelle esplicitazioni successive. Ma è stato espunto qualcosa di non secondario, perché prima che un dono a noi e, oltre che sacrificio di lode e ringraziamento, l’Eucaristia è l’unico Sacrificio di espiazione, propiziatorio di Cristo da Lui presentato, offerto al Padre.
Nessun documento conciliare autorizzava a operare tagli selvaggi all’Offertorio, sostituendo all’Hostia (vittima) pura santa e immacolata il “frutto della terra e del nostro lavoro”, trasformando così l’Offerta di Cristo alla quale uniamo la nostra offerta al Padre, in una formula di conio rabbinico: una berakah (preghiera di lode e benedizione) ebraica, che il Signore ha certamente pronunciato, ma che non è il punto focale della sua Azione, del Novum che egli ha introdotto nell’Ultima Cena.
Come dice Romano Amerio (2):
Poiché la parola consegue all’idea, la loro scomparsa [delle parole, nel nostro caso intere formule – ndA] arguisce scomparsa o quanto meno eclissazione di quei concetti un tempo salienti nel sistema cattolico.
È successo, quindi, che nella Santa Messa cattolica, nel Nuovo Rito, la benedizione ebraica sostituisce quella che nel Rito secondo l’usus antiquior è l’Offerta cristiana.
Questo, come possiamo chiamarlo se non “discontinuità”? E tanto più grave in quanto tocca il Rito, e lo de-forma, proprio nel preludio e nella preparazione in crescendo al suo momento più sacro e solenne. Ch’è anche il momento più sacro e solenne del Rito e della Storia.
Ricordando che funzione primaria della Chiesa è rendere l’autentico culto a Dio. Sorvolando
sugli altri tagli non meno selvaggi operati al Rito Gregoriano: ad esempio tutti i riferimenti a san Michele Arcangelo, alla Vergine e alla Comunione dei Santi. Sulle modifiche perfino alla formula consacratoria (oltretutto con accenti narrativi, mentre invece non è narrazione, ma è un fatto, Actio di Cristo). Sorvolando anche su alcune improprie traduzioni del messale latino di Paolo VI.

Sempre dalla Sacramentum caritatis, n. 11
... In questo modo Gesù inserisce il suo novum radicale all’interno dell’antica cena (pasquale) sacrificale ebraica. Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla. Come giustamente dicono i Padri, figura transit in veritatem: ciò che annunciava le realtà future ha ora lasciato il posto alla verità stessa. L’antico rito si è compiuto ed è stato superato definitivamente attraverso il dono d’amore del Figlio di Dio incarnato. Il cibo della verità, Cristo immolato per noi, dat ... figuris terminum. (Breviario Romano, Inno all’Ufficio delle Letture della solennità del Corpus Domini.)
E allora, a maggior ragione, che senso ha per noi, la berakah ebraica al posto dell’Offertorio?
Inoltre può ravvisarsi un pericolo teologico-sacramentale nell’assolutizzazione della “preghiera di benedizione” staccata dal suo oggetto (la benedizione è compresa nella formula di Consacrazione ed è un tutt’uno con essa: “benedixit... fregit...dedit” — Benedisse... spezzò... diede), che è quello di fare della Messa un memoriale nel senso di commemorazione o semplice ricordo. Essa è invece zikkaron, nel senso del memoriale ebraico: rinnovamento,
ripetizione, attualizzazione, cioè rende presente nell’hic et nunc di ogni celebrazione la realtà sacramentale del Sacrificio di Cristo, e non solo nella memoria per quanto viva e protesa nel
ringraziamento a Dio.
E non si limita al ringraziamento per la Creazione, peraltro presente (con l’aggiunta della Redenzione) nel riconoscimento, che prelude la richiesta, espresso dalla seconda invocazione:
Deus, qui humanae substantiae dignititaem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per hujus aquae et vini mysterium, eius divinitates esse consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignatus est particeps, Jesus Christus... / O Dio, che in modo mirabile creasti nello splendore della sua dignità la natura umana, e in modo ancor più mirabile le ridonasti nuova vita: per il mistero di quest’acqua e questo vino, concedici di partecipare alla divinità di colui che si è degnato di divenire partecipe della nostra natura umana, Gesù Cristo...
Del resto il ringraziamento per la Creazione ormai definitivamente redenta è ben presente anche nella conclusione del Canone:
Per quem haec omnia, Domine, semper bona creas, sanctificas, vivificas, benedicis et praestas nobis ... / Mediante Lui, o Signore, Tu non cessi dal creare tutti questi beni e li santifichi, doni loro vita e li benedici per farcene dono...
Cito Manfred Hauke, in «La Santa Messa, Sacrificio della Nuova Alleanza.»:
Il sacerdote che celebra la Santa Messa in rito antico accoglie una consapevolezza più intensa della centralità del sacrificio. Per illustrare quest’affermazione, vorrei solamente ricordare le preghiere recitate a bassa voce durante l’offertorio sul pane e sul vino. Secondo la valutazione di Robert Spaemann, si tratta qui dell’intervento più radicale del Novus Ordo nella liturgia romana precedente. Nel rito di Paolo VI, le due preghiere si ispirano a delle formule ebraiche di ringraziamento per i pasti, aggiungendo molto discretamente l’idea dell’“offerta”: “lo presentiamo a te, perché diventi per noi “cibo di vita eterna” rispettivamente “bevanda di salvezza”.
Nel testo latino, Paolo VI ha insistito di mettere il verbo offerimus (“offriamo”) contro la maggior parte dei liturgisti, che ritenevano di dover rimuovere l’idea del sacrificio dall’offertorio [es. Bugnini -ndR)]. È vero che il sacrificio vero e proprio si svolge durante la consacrazione, ma nei riti eucaristici l’idea del sacrificio viene già anticipata prima, nel rito di san Giovanni Crisostomo persino sin dalla proscomidia, quando si preparano le ostie all’inizio della Divina Liturgia.
Ecco cosa risponde il Vescovo Schneider a chi domanda lumi sull’offertorio antico, che viene tacciato di essere addirittura eteroclito:
In tutta la storia della liturgia romana, ma anche nelle liturgie orientali, l’Offertorio è sempre stato legato all’attuazione del sacrificio del Golgotha. Non si trattava di preparare la Cena, ma di preparare il sacrificio eucaristico che aveva come frutto il convivio della comunione eucaristica. Ciò che si offre, viene dato per il sacrificio della Croce, si tratta di ciò che possiamo chiamare “un’anticipazione simbolica.
L’Offertorio richiama tutti i sacrifici dell’Antico Testamento, partendo dai grandi offertori di Melchisedech e di Abele. È una crescita continua fino al sacrificio del Golgotha. Questa visione biblica giustifica pienamente l’Offertorio tradizionale senza dimenticare i riti orientali che sono ancora più solenni nella loro anticipazione del Mistero della Croce.
Così come per sant’Agostino “il Nuovo Testamento era nascosto nel Antico Testamento”, potremmo dire che la Consacrazione è nascosta nell’Offertorio.
Quindi, direi proprio il contrario: l’Offertorio tradizionale è tutto tranne che eteroclito, è un puro prodotto della logica biblica della storia della salvezza.

Se durante la Santa Messa, che è il Sacrificio della Croce, l’offerta del Corpo e del Sangue di Gesù e la loro mistica immolazione, avvengono insieme al momento della Consacrazione, è tuttavia necessario che il Sacerdote e i fedeli uniscano l’offerta di se stessi all’unica offerta gradita a Dio, quella di Gesù.
Perciò, nel rito della Messa, esistono momenti precedenti e successivi alla consacrazione nei quali si esprime l’offerta di Gesù al Padre e quella dei cristiani con lui.
L’Offertorio è sacrificale: quello che viene offerto è il Corpo e Sangue di Gesù, non il Pane e il Vino; è un’anticipazione per dare modo a tutti di unirsi all’Offerta di Gesù, è una  preparazione che anticipa un crescendo.
L’Offertorio, nella sua primitiva accezione, aveva ben presente il Sacrificio come prolessi, cioè come anticipazione del Sacrificio a venire. Le oblate sono intimamente legate al Sacrificio. L’offertorio fa parte integrante dell’Actio del Canone, nel cuore della Santa Messa.
È innegabile, tuttavia, che la “forma” ordinaria di fatto ha cambiato i connotati alle oblate ed estromesso il loro aspetto sacrificale.
Maria Guarini
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1. "... Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia «fatta», che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di «donato», ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna «comunità» voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita". [J. Ratzinger, La mia vita: ricordi, 1927-1977", p. 110.]
2. Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni nella Chiesa Cattolica nel secolo XX, Lindau 2009, p. 103.

7 commenti:

lonewolfe ha detto...

Di fatto, questi ‘tagli selvaggi’ appiattiscono la dimensione verticale della Messa, per tradurla a misura d’uomo. Ma se l’intento era di rendere più accessibile all’intelligenza del fedele l’azione sacra, in realtà l’esito è un mettere tra parentesi l’attualità del Sacrificio di Cristo, è un dare per sottintesa e scontata la Sua Presenza che si ripete e accade sull’altare. Con in più l’effetto collaterale e inevitabile di un forte ridimensionamento del ruolo di mediazione e di supplica del sacerdote, il quale nella Messa NO appare poco più che un interlocutore. Lì tutto è affidato di fatto alla destrezza spirituale del fedele che deve arrampicarsi spesso sui gradini incerti della propria tiepidezza per scorgere nell’Eucarestia celebrata la tangibilità del Totalmente Altro.

A chi giova tutto questo, a cosa? Dov’è il guadagno? Davvero si fa fatica ad aspettare risposte.

Anonimo ha detto...

si dice che la Nuova Messa è più partecipata, confondendo il 'partecipare' col 'fare' qualcosa: andare a leggere, cantare, le preghiere dei fedeli, quasi che l'ascolto e l'immersione profonda in quanto sai che 'accade' non sia 'partecipazione'... tenendo anche conto che il dialogo tra sacerdote e fedeli c'è anche nel Rito Antico e il Sacerdote - che non dà le spalle ai fedeli ma insieme sono rivolti al Signore - agisce "in persona Christi", dimentica se stesso e nell'attenzione ai gesti e alle formule che hanno significati sublimi intraducibili, riesce davvero ad immedesimarsi in quanto accade. Chi muore e offre il Sacrificio è Cristo, ma noi, membra del suo Corpo siamo in Lui.
Quindi partecipare non significa capire tutto (è un mistero talmente grande che ci si svela sempre ulteriormente), ma offrire la vita unendola all'unico Sacrificio di Cristo, che rinnova qui adesso per me quell'unica morte redentrice in croce. E il sacrificio ha compimento col pasto sacro, che ci dona il "pane disceso dal cielo" con i beni escatologici, quelli dei 'tempi ultimi' inaugurati dal Signore: è il tempo che viviamo fino alla sua seconda venuta

E' questa la messa che ha forgiato santi per millenni... che è arrivata a noi pressocché intatta, intatta, sicuramente nel canone, fin dal IV secolo; ma la Vetus Latina data già dal II secolo e il suo è già un linguaggio ieratico, codificato, sacro, non lo stesso che usiamo noi sia per andare al supermercato che per rivolgerci a Dio. Una 'forma' che papa Damaso, nel IV secolo non ardì cambiare se non nelle "letture", introducendo i testi della Vulgata di S. Girolamo... e oggi, invece...

Ci siamo dimenticati che il volgare non è una conquista. La lingua sacra, strutturata, in ogni espressione gesto e signficato conserva il dogma, la fede degli secoli arrivata fino a noi, conserva il senso dell'indicibile e anche dell'intraducibile, non solo col cervello: bisogna guardare, ascoltare, adorare... in più la lingua universale fa sentire tutti a casa ed ha la stabilità, la pregnanza che la traduzione banalizza, senza contare i sacri silenzi... bastava introdurlo, come già si fà, solo nelle letture.

E il latino non è un ostacolo perché la traduzione presente nei messali consente la giusta comprensione anche a chi non lo conosce e con la frequentazione acquista dimestichezza

Anonimo ha detto...

A chi giova tutto questo, a cosa? Dov’è il guadagno? Davvero si fa fatica ad aspettare risposte.

giova a chi, col pretesto di un "insano archeologismo liturgico" (così lo chiamava Pio XII) e sotto le vesti di un cristianesimo annacquato ed imbastardito, ha profondamente trasformato il volto della Chiesa e continua a diluire, tentando di far eclissare completamente Cristo Signore, il Suo Sacrificio, la sua Opera Divino-Umana per la nostra Salvezza.

Anonimo ha detto...

Ecco cosa risponde il Vescovo Schneider a chi domanda lumi sull'offertorio antico, che viene tacciato di essere addirittura eteroclito:

"In tutta la storia della liturgia romana, ma anche nelle liturgie orientali, l’Offertorio è sempre stato legato all’attuazione del sacrificio del Golgotha. Non si trattava di preparare la Cena, ma di preparare il sacrificio eucaristico che aveva come frutto il convivio della comunione eucaristica. Ciò che si offre, viene dato per il sacrifico della Croce, si tratta di ciò che possiamo chiamare “un’anticipazione simbolica”.

L’Offertorio richiama tutti i sacrifici dell’Antico Testamento, partendo dai grandi offertori di Melchisedech e di Abele. E’ una crescita continua fino al sacrifico del Golgotha. Questa visione biblica giustifica pienamente l’Offertorio tradizionale senza dimenticare i riti orientali che sono ancora più solenni nella loro anticipazione del Mistero della Croce.

Così come per Sant’Agostino “il Nuovo Testamento era nascosto nel Antico Testamento”, potremmo dire che la Consacrazione è nascosta nell’Offertorio. Quindi, direi proprio il contrario: l’Offertorio tradizionale è tutto tranne che eteroclito, è un puro prodotto della logica biblica della storia della salvezza.
"

(ringrazio Stefano per la segnalazione)

Viator ha detto...

...Riguardo la Berakà le rispondo subito. Sì, ho qualcosa contro la Berakà, non in quanto ebraica (e magari rimando al mittente anche l’accusa di antisemitismo!) ma in quanto non c’entra veramente nulla in quel contesto, poichè è un elemento giudaico in contrasto con quello che sista per fare. Non si voleva l’Offertorio tradizionale perchè troppo “anticipatore” del Sacrificio? Benissimo, si sarebbe potuto MODIFICARE nella continuità, però. La Berakà non ha ragione di essere, perchè prelude ad un rituale EBRAICO che Cristo ha SUPERATO. E si presta ad ambiguità. Il Papa stesso in una indimenticata omelia del Giovedì Santo 2007 afferma:
Così al centro della Pasqua nuova di Gesù stava la Croce. Da essa veniva il dono nuovo portato da Lui. E così essa rimane sempre nella Santa Eucaristia, nella quale possiamo celebrare con gli Apostoli lungo il corso dei tempi la nuova Pasqua. Dalla croce di Cristo viene il dono. “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso”. Ora Egli la offre a noi. L’haggadah pasquale, la commemorazione dell’agire salvifico di Dio, è diventata memoria della croce e risurrezione di Cristo – una memoria che non ricorda semplicemente il passato, ma ci attira entro la presenza dell’amore di Cristo. E così la berakha, la preghiera di benedizione e ringraziamento di Israele, è diventata la nostra celebrazione eucaristica, in cui il Signore benedice i nostri doni – pane e vino – per donare in essi se stesso

Si modifichi, quindi, l’offertorio. Ma si faccia ben chiaro il riferimento a quello che anche il Papa dice qui sopra: il Signore Benedice i DONI perchè essi siano trasformati e lui attraverso essi DONI SE STESSO. Non “il frutto della vite e del lavoro dell’uomo” che “presentiamo a te perchè diventi per noi bevanda di salvezza”. Ma perchè diventi per noi IL SANGUE DI CRISTO CROCIFISSO E RISORTO, quel Sangue è “la nostra Salvezza”, e và detto chiaro e tondo. O no? E non è il “pane frutto della terra e del lavoro dell’Uomo” che “diventa per noi cibo di vita eterna”, ma diventa il CORPO SANTO E IMMACOLATO DELLA VITTIMA PERFETTA. O no?

Anonimo ha detto...

I just want to say Hi to Everyone!

Anonimo ha detto...

Concordo su tutta la linea.Si cerca in ogni modo di sminuire Dio e innalzare l'uomo.